Indicare la provenienza per gli antichi era una forma di marchio DOC ante litteram. Quando Plinio ci fornì la prima trattazione sistematica delle pietre preziose, queste erano sottoposte ad indagini con metodi poco sofisticati ed empirici. Ecco che gli attributi riferibili alle gemme erano proprio le regioni di provenienza che attestavano insieme la genuinità ed il valore del materiale. E così in epoca a noi più vicina, il grande scienziato islamico Ahmad Ibn Iusuf At-Tifasci sette secoli fa celebrava gli impervi corsi d’acqua del Sarandib, nome arabo dell’attuale Sri-Lanka, perché contenevano i più rari diamanti e zaffiri di bellezza, per l’appunto, garantita dall’origine. Da allora fino ai nostri giorni il nome delle singole miniere d’estrazione s’è mostrato una sorta di marchio di qualità, una precoce forma, elementare ma efficace, di brand.
Al contrario la provenienza geografica non è stata considerata nella moderna gemmologia un elemento decisivo per la diagnosi, dovendosi render conto essenzialmente della determinazione della natura della pietra, se questa sia un genuino prodotto del sottosuolo, se abbia subito trattamenti o se sia invece un manufatto confezionato interamente in laboratorio. Tuttavia in tempi più recenti gli studiosi hanno orientato il timone della ricerca verso l’individuazione delle aree minerarie di origine. Ciò è avvenuto soprattutto per l’impulso decisivo di uno dei padri dello studio delle inclusioni, E. Gubelin. La sua è stata una straordinaria indagine di quelle tracce che nelle pietre di colore potessero aiutarne l’identificazione. Il suo metodo, iniziato a metà del secolo scorso, si è basato sulla meticolosa raccolta di migliaia di campioni, prelevati con più riscontri ed accertamenti, dai luoghi d’estrazione. Questo repertorio ha consentito di tracciare in modo documentato quelle inclusioni e quei fenomeni che caratterizzano le gemme provenienti da una determinata area geografica. Le ricerche di Gubelin hanno rafforzato il prestigio dei certificati emessi dal proprio laboratorio e non è un caso se ancora oggi siano tra i preferiti dalle più prestigiose case d’asta internazionali assieme a quelli rilasciati dal GIA o SSEF, solo per nominarne alcuni. Più di recente si stanno evidenziando sviluppi interessanti che riaffermano l’importanza della determinazione della provenienza ai fini della valutazione delle pietre preziose. I nostri lontani predecessori non erano dunque fuori strada quando associavano qualità ad origine, anche se i loro resoconti non potevano che essere permeati di leggende e superstizioni.
Dal lavoro di E. Gubelin in poi l’origine geografica è ricollegata dunque al valore delle pietre di colore.
È parere comune, per l’inevitabile consolidarsi dell’opinione dei più, che, ad esempio in generale gli smeraldi colombiani di Chivor e Muzo siano più attraenti di quelli brasiliani o che gli zaffiri provenienti dal Kashmir siano sempre i più pregiati. Queste antiche e stratificate graduatorie stilate per origine geografica sono comunque da considerarsi approssimative perché è opportuno tener conto che le gemme veramente notevoli sono una piccola percentuale della copiosa quantità estratta e tagliata: la qualità non è pertanto sempre mera conseguenza dell’origine. Sul mercato di Bangkok, ad esempio, da anni le quotazioni dello zaffiro del Madagascar gareggiano con quelle del celebre Ceylon. Ma quest’ultimo continua ad essere percepito come un simbolo d’eccellenza. Esempi analoghi possono riguardare i rubini africani di Winza rapportati ai birmani di Mogok. In un caso la provenienza geografica ha finito per indicare l’intera varietà, un esempio su tutti: le tormaline elbaiti africane, nella varietà verde-azzurra contenenti un alto tasso di rame sono lecitamente designate come Paraiba, col nome cioè dello stato brasiliano che le ha rese famose. Si devono dunque prima verificare le doti intrinseche della gemma. Se a queste poi il gemmologo riesce ad associare l’esatta provenienza si avrà forse del valore aggiunto.
Ma come si procede, in pratica, nell’identificazione dell’area geografica di origine?
La base imprescindibile del protocollo consiste nel disporre di un campionario di gemme di provenienza certa il più rappresentativo e completo possibile. Può sembrare banale ma, probabilmente questo è uno degli aspetti più critici per una serie di motivi. Il primo è senz’altro la difficoltà oggettiva nel raggiungere i depositi di estrazione, tradizionalmente situati in zone poco accessibili e in regioni che presentano spesso problematiche anche di tipo politico. Giunti in prossimità della miniera si corre poi il rischio concreto di vedersi rifilare materiale sintetico, molto spesso preformato ad arte per simulare grezzi naturali. A tal proposito vale la pena di ricordare quella che tra gli addetti ai lavori è nota come legge di Hughes (da Richard W. Hughes, celebre gemmologo esperto di ricerche sul campo): più si è vicini alla miniera, più è facile che vi vengano offerte pietre sintetiche. La collezione dei campioni di riferimento deve a questo punto essere sottoposta a tutti i test possibili per la costruzione di un database di caratteristiche peculiari. I cristalli vengono fotografati, misurati, analizzati seguendo i protocolli gemmologici standard. Di importanza fondamentale l’analisi microscopica delle caratteristiche interne e l’identificazione delle inclusioni cristalline mediante spettrometria RAMAN. Da ultimo lo studio degli spettri caratteristici in tutte le condizioni possibili, dall’ultravioletto all’infrarosso passando ovviamente per il visibile e i test più avanzati (spettrometria di massa accoppiata induttivamente al plasma, ad ablazione laser, LA-ICP-MS) per la rilevazione degli elementi in traccia. I Dati così raccolti costituiscono una serie di profili con cui confrontare le gemme che verranno poi di volta in volta sottoposte a verifica. Effettivamente al giorno d’oggi la battaglia si combatte con l’utilizzo di strumentazioni avanzatissime che sino a pochi anni fa erano quasi del tutto assenti in un laboratorio gemmologico e il cui utilizzo non è quasi mai alla portata del gemmologo medio. Sembrano definitivamente tramontati i tempi in cui ci si poteva azzardare a dividere in un lotto rubini tailandesi e birmani in base a come questi si accendevano sotto una lampada UV. Anche lo studio delle inclusioni caratteristiche al microscopio sembra veder franare molte storiche certezze, basti pensare alla prova principe che tutti i gemmologi cercavano con ansia in uno smeraldo per poterne attribuire senz’alcun ombra di dubbio la provenienza colombiana: la presenza di inclusioni trifasi (foto).
Al contrario la provenienza geografica non è stata considerata nella moderna gemmologia un elemento decisivo per la diagnosi, dovendosi render conto essenzialmente della determinazione della natura della pietra, se questa sia un genuino prodotto del sottosuolo, se abbia subito trattamenti o se sia invece un manufatto confezionato interamente in laboratorio. Tuttavia in tempi più recenti gli studiosi hanno orientato il timone della ricerca verso l’individuazione delle aree minerarie di origine. Ciò è avvenuto soprattutto per l’impulso decisivo di uno dei padri dello studio delle inclusioni, E. Gubelin. La sua è stata una straordinaria indagine di quelle tracce che nelle pietre di colore potessero aiutarne l’identificazione. Il suo metodo, iniziato a metà del secolo scorso, si è basato sulla meticolosa raccolta di migliaia di campioni, prelevati con più riscontri ed accertamenti, dai luoghi d’estrazione. Questo repertorio ha consentito di tracciare in modo documentato quelle inclusioni e quei fenomeni che caratterizzano le gemme provenienti da una determinata area geografica. Le ricerche di Gubelin hanno rafforzato il prestigio dei certificati emessi dal proprio laboratorio e non è un caso se ancora oggi siano tra i preferiti dalle più prestigiose case d’asta internazionali assieme a quelli rilasciati dal GIA o SSEF, solo per nominarne alcuni. Più di recente si stanno evidenziando sviluppi interessanti che riaffermano l’importanza della determinazione della provenienza ai fini della valutazione delle pietre preziose. I nostri lontani predecessori non erano dunque fuori strada quando associavano qualità ad origine, anche se i loro resoconti non potevano che essere permeati di leggende e superstizioni.
Dal lavoro di E. Gubelin in poi l’origine geografica è ricollegata dunque al valore delle pietre di colore.
È parere comune, per l’inevitabile consolidarsi dell’opinione dei più, che, ad esempio in generale gli smeraldi colombiani di Chivor e Muzo siano più attraenti di quelli brasiliani o che gli zaffiri provenienti dal Kashmir siano sempre i più pregiati. Queste antiche e stratificate graduatorie stilate per origine geografica sono comunque da considerarsi approssimative perché è opportuno tener conto che le gemme veramente notevoli sono una piccola percentuale della copiosa quantità estratta e tagliata: la qualità non è pertanto sempre mera conseguenza dell’origine. Sul mercato di Bangkok, ad esempio, da anni le quotazioni dello zaffiro del Madagascar gareggiano con quelle del celebre Ceylon. Ma quest’ultimo continua ad essere percepito come un simbolo d’eccellenza. Esempi analoghi possono riguardare i rubini africani di Winza rapportati ai birmani di Mogok. In un caso la provenienza geografica ha finito per indicare l’intera varietà, un esempio su tutti: le tormaline elbaiti africane, nella varietà verde-azzurra contenenti un alto tasso di rame sono lecitamente designate come Paraiba, col nome cioè dello stato brasiliano che le ha rese famose. Si devono dunque prima verificare le doti intrinseche della gemma. Se a queste poi il gemmologo riesce ad associare l’esatta provenienza si avrà forse del valore aggiunto.
Ma come si procede, in pratica, nell’identificazione dell’area geografica di origine?
La base imprescindibile del protocollo consiste nel disporre di un campionario di gemme di provenienza certa il più rappresentativo e completo possibile. Può sembrare banale ma, probabilmente questo è uno degli aspetti più critici per una serie di motivi. Il primo è senz’altro la difficoltà oggettiva nel raggiungere i depositi di estrazione, tradizionalmente situati in zone poco accessibili e in regioni che presentano spesso problematiche anche di tipo politico. Giunti in prossimità della miniera si corre poi il rischio concreto di vedersi rifilare materiale sintetico, molto spesso preformato ad arte per simulare grezzi naturali. A tal proposito vale la pena di ricordare quella che tra gli addetti ai lavori è nota come legge di Hughes (da Richard W. Hughes, celebre gemmologo esperto di ricerche sul campo): più si è vicini alla miniera, più è facile che vi vengano offerte pietre sintetiche. La collezione dei campioni di riferimento deve a questo punto essere sottoposta a tutti i test possibili per la costruzione di un database di caratteristiche peculiari. I cristalli vengono fotografati, misurati, analizzati seguendo i protocolli gemmologici standard. Di importanza fondamentale l’analisi microscopica delle caratteristiche interne e l’identificazione delle inclusioni cristalline mediante spettrometria RAMAN. Da ultimo lo studio degli spettri caratteristici in tutte le condizioni possibili, dall’ultravioletto all’infrarosso passando ovviamente per il visibile e i test più avanzati (spettrometria di massa accoppiata induttivamente al plasma, ad ablazione laser, LA-ICP-MS) per la rilevazione degli elementi in traccia. I Dati così raccolti costituiscono una serie di profili con cui confrontare le gemme che verranno poi di volta in volta sottoposte a verifica. Effettivamente al giorno d’oggi la battaglia si combatte con l’utilizzo di strumentazioni avanzatissime che sino a pochi anni fa erano quasi del tutto assenti in un laboratorio gemmologico e il cui utilizzo non è quasi mai alla portata del gemmologo medio. Sembrano definitivamente tramontati i tempi in cui ci si poteva azzardare a dividere in un lotto rubini tailandesi e birmani in base a come questi si accendevano sotto una lampada UV. Anche lo studio delle inclusioni caratteristiche al microscopio sembra veder franare molte storiche certezze, basti pensare alla prova principe che tutti i gemmologi cercavano con ansia in uno smeraldo per poterne attribuire senz’alcun ombra di dubbio la provenienza colombiana: la presenza di inclusioni trifasi (foto).
inclusione trifasica tipica dello smeraldo Colombiano |
Oggi sappiamo che tale caratteristica è anche appannaggio degli smeraldi di provenienza cinese (miniera di Davdar) e Afgana (Panjshir). Alla luce di quanto detto si può capire quanto difficile sia il compito che i laboratori devono affrontare.
Tutto qui? No, non si tratta di dare solo del valore materiale. Bisogna fare i conti anche con il valore della responsabilità sociale.
L’identificazione dell’origine geografica può essere uno strumento straordinario per isolare quei paesi che foraggiano conflitti locali, abusi dei diritti umani, atti di terrorismo, sfruttamento indiscriminato delle risorse delle comunità locali per mezzo del commercio di alcune risorse naturali. L’opinione pubblica mondiale, sopratutto nell’ultimo decennio, ha fatto una crescente pressione affinché i temi etici trovino l’attenzione degli addetti ai lavori. Nel 2002 prende il via il processo di Kimberley, un accordo non vincolante tra molti paesi intenzionati a frenare gli illeciti collegati al commercio di diamanti grezzi. Questo dispositivo si regge su elaborate procedure giuridiche ma i presupposti tecnici che ne assicurano l’efficacia si riferiscono al metodo di classificazione dei diamanti grezzi messo a punto nel 1975 per De Beers dal dottor Jeff Harris. Il protocollo si basa sostanzialmente sulla classificazione dei caratteri morfologici dei cristalli, dando luogo di una carta d’identità (footprint) che consente di ricondurre il materiale ad un preciso giacimento diamantifero. Una limitazione non da poco: il sistema trova applicazione solo per lotti di diamanti grezzi. Del tutto diverso è il problema se si volesse tentare l’identificazione dell’origine di un diamante singolo e per di più già tagliato. In questo caso la scienza stessa naviga ancora in alto mare nonostante da anni si stiano facendo sforzi enormi per poter venire a capo della questione.
Vincent Pardieu: “Stabilire la provenienza delle gemme è una sfida complessa che richiede metodo e l’uso di tecniche combinate ed innovative”
Dall’ambiente asettico e freddo del classico laboratorio d’analisi all’inebriante avventura vissuta a diretto contatto della terra. Vincent Pardieu è uno dei gemmologi più esperti a livello mondiale nella ricerca gemmologica “sul campo”, attività che è alla base degli studi per la determinazione dell’origine di un pietra preziosa. Formatosi all’AIGS di Bangkok è poi passato in forze al laboratorio Gubelin per poi approdare due anni fa al GIA Bangkok come “Field Gemology Supervisor” . Pardieu ha coniugato la passione per i viaggi (www.fieldgemology.org, il sito che riporta buona parte dell’imponente serie di spedizioni sui siti di estrazione) con quella per la gemmologia. Lavoro arduo, avventuroso, e non privo di rischi, dalla malaria contratta in Madagascar all’arresto in Mozambico dovuto a malintesi con la polizia locale. Negli ultimi 2 anni di lavoro per il GIA ha raccolto e classificato più di 7000 campioni singoli significativi (più di 200.000 se includiamo quelli in lotti) in Tailandia, Cambogia, Laos, Vietnam, Madagascar, Tanzania, Mozambico, Pakistan e Afghanistan.
Da dove partire? “Un database di riferimento il più completo possibile è il primo requisito indispensabile per una seria ricerca sull’identificazione di provenienza. Raccogliere esemplari nelle aree di estrazione è un elemento cruciale, lo scorso giugno in Pakistan ho assistito all’apertura di nuovi tunnel con l’uso di esplosivo e ho avuto la possibilità di entrare per primo e raccogliere alcuni cristalli, certo, non si è sempre così fortunati e per questo è sempre bene procurarsi i campioni da più minatori, anche per ridurre il rischio, a volte presente, di acquistare sintetici mescolati ai naturali”.
Abbiamo la nostra bella gemma in laboratorio e desideriamo spingerci oltre la semplice constatazione della sua natura, ne vogliamo conoscere l’origine.
Come si fa? “Si effettuano tutti i test necessari e se ne mettono a confronto i risultati con i dati delle pietre di riferimento, tuttavia, in molti casi è veramente difficile stabilire la provenienza di una gemma. Facciamo l’esempio degli zaffiri: Sri-Lanka, Madagascar e Tanzania facevano parte, in tempi antichissimi, di un’unica regione. Gemme che oggi vengono rinvenute a migliaia di chilometri di distanza si formarono a seguito degli stessi eventi geologici e ne condividono le stesse caratteristiche.”
Aree tra loro remote in cui si estraggono materiali con genesi affini. Ma in distretti minerari di ridotte dimensioni le gemme si caratterizzano per fenomeni facilmente riconducibili a quel territorio?
“Prendiamo ad esempio la zona di Mogok, in Myanmar, una delle aree tradizionalmente più ricche al mondo quanto a varietà e qualità del materiale. Ci sono lì attualmente 4 o 5 giacimenti in cui si estraggono zaffiri e sebbene le distanze non siano così rilevanti, si possono comunque notare differenze nelle pietre. In più, alcuni giacimenti sono molto antichi, altri più recenti, quello che viene estratto oggi differisce per alcune caratteristiche da quanto portato alla luce in altre epoche.
Tutto qui? No, non si tratta di dare solo del valore materiale. Bisogna fare i conti anche con il valore della responsabilità sociale.
L’identificazione dell’origine geografica può essere uno strumento straordinario per isolare quei paesi che foraggiano conflitti locali, abusi dei diritti umani, atti di terrorismo, sfruttamento indiscriminato delle risorse delle comunità locali per mezzo del commercio di alcune risorse naturali. L’opinione pubblica mondiale, sopratutto nell’ultimo decennio, ha fatto una crescente pressione affinché i temi etici trovino l’attenzione degli addetti ai lavori. Nel 2002 prende il via il processo di Kimberley, un accordo non vincolante tra molti paesi intenzionati a frenare gli illeciti collegati al commercio di diamanti grezzi. Questo dispositivo si regge su elaborate procedure giuridiche ma i presupposti tecnici che ne assicurano l’efficacia si riferiscono al metodo di classificazione dei diamanti grezzi messo a punto nel 1975 per De Beers dal dottor Jeff Harris. Il protocollo si basa sostanzialmente sulla classificazione dei caratteri morfologici dei cristalli, dando luogo di una carta d’identità (footprint) che consente di ricondurre il materiale ad un preciso giacimento diamantifero. Una limitazione non da poco: il sistema trova applicazione solo per lotti di diamanti grezzi. Del tutto diverso è il problema se si volesse tentare l’identificazione dell’origine di un diamante singolo e per di più già tagliato. In questo caso la scienza stessa naviga ancora in alto mare nonostante da anni si stiano facendo sforzi enormi per poter venire a capo della questione.
Vincent Pardieu: “Stabilire la provenienza delle gemme è una sfida complessa che richiede metodo e l’uso di tecniche combinate ed innovative”
Dall’ambiente asettico e freddo del classico laboratorio d’analisi all’inebriante avventura vissuta a diretto contatto della terra. Vincent Pardieu è uno dei gemmologi più esperti a livello mondiale nella ricerca gemmologica “sul campo”, attività che è alla base degli studi per la determinazione dell’origine di un pietra preziosa. Formatosi all’AIGS di Bangkok è poi passato in forze al laboratorio Gubelin per poi approdare due anni fa al GIA Bangkok come “Field Gemology Supervisor” . Pardieu ha coniugato la passione per i viaggi (www.fieldgemology.org, il sito che riporta buona parte dell’imponente serie di spedizioni sui siti di estrazione) con quella per la gemmologia. Lavoro arduo, avventuroso, e non privo di rischi, dalla malaria contratta in Madagascar all’arresto in Mozambico dovuto a malintesi con la polizia locale. Negli ultimi 2 anni di lavoro per il GIA ha raccolto e classificato più di 7000 campioni singoli significativi (più di 200.000 se includiamo quelli in lotti) in Tailandia, Cambogia, Laos, Vietnam, Madagascar, Tanzania, Mozambico, Pakistan e Afghanistan.
Da dove partire? “Un database di riferimento il più completo possibile è il primo requisito indispensabile per una seria ricerca sull’identificazione di provenienza. Raccogliere esemplari nelle aree di estrazione è un elemento cruciale, lo scorso giugno in Pakistan ho assistito all’apertura di nuovi tunnel con l’uso di esplosivo e ho avuto la possibilità di entrare per primo e raccogliere alcuni cristalli, certo, non si è sempre così fortunati e per questo è sempre bene procurarsi i campioni da più minatori, anche per ridurre il rischio, a volte presente, di acquistare sintetici mescolati ai naturali”.
Abbiamo la nostra bella gemma in laboratorio e desideriamo spingerci oltre la semplice constatazione della sua natura, ne vogliamo conoscere l’origine.
Come si fa? “Si effettuano tutti i test necessari e se ne mettono a confronto i risultati con i dati delle pietre di riferimento, tuttavia, in molti casi è veramente difficile stabilire la provenienza di una gemma. Facciamo l’esempio degli zaffiri: Sri-Lanka, Madagascar e Tanzania facevano parte, in tempi antichissimi, di un’unica regione. Gemme che oggi vengono rinvenute a migliaia di chilometri di distanza si formarono a seguito degli stessi eventi geologici e ne condividono le stesse caratteristiche.”
Aree tra loro remote in cui si estraggono materiali con genesi affini. Ma in distretti minerari di ridotte dimensioni le gemme si caratterizzano per fenomeni facilmente riconducibili a quel territorio?
“Prendiamo ad esempio la zona di Mogok, in Myanmar, una delle aree tradizionalmente più ricche al mondo quanto a varietà e qualità del materiale. Ci sono lì attualmente 4 o 5 giacimenti in cui si estraggono zaffiri e sebbene le distanze non siano così rilevanti, si possono comunque notare differenze nelle pietre. In più, alcuni giacimenti sono molto antichi, altri più recenti, quello che viene estratto oggi differisce per alcune caratteristiche da quanto portato alla luce in altre epoche.
Zaffiro del Madagascar con la sua tipica tonalità di colore |
Se, ad esempio il laboratorio dispone di un campione di riferimento molto vecchio di provenienza Mogok ci potrebbe essere il rischio di non trovare una corrispondenza con materiale estratto in tempi recenti.”
E per quanto riguarda il Madagascar?
“In quel paese conosco più di 20 giacimenti che producono zaffiri di cui il più importante e conosciuto è quello di Ilakaka ma si tratta di un’area lunga 150 km e larga 100 e non mi viene in mente molta gente che abbia visitato tutti i depositi della zona e possa dire che gli zaffiri estratti condividano le stesse caratteristiche. …”
Sembra che sul mercato le pietre con determinazione dell’origine siano sempre più apprezzate. Per il gemmologo questa è una nuova avventura, una nuova frontiera. Ma forse il suo bagaglio tecnico tradizionale è insufficiente…
“Certamente al giorno d’oggi la tecnologia ci mette a disposizione apparecchiature che consentono di aggiungere nuovi e sempre più concreti elementi per l’identificazione dell’origine, tuttavia il loro utilizzo e l’interpretazione dei dati che ne derivano necessitano spesso di personale altamente qualificato in molti casi dotato di un background scientifico specialistico. In più stiamo parlando di apparecchiature anche molto costose, non ci sono molti laboratori al mondo che possano dotarsene.”
E per quanto riguarda il Madagascar?
“In quel paese conosco più di 20 giacimenti che producono zaffiri di cui il più importante e conosciuto è quello di Ilakaka ma si tratta di un’area lunga 150 km e larga 100 e non mi viene in mente molta gente che abbia visitato tutti i depositi della zona e possa dire che gli zaffiri estratti condividano le stesse caratteristiche. …”
Sembra che sul mercato le pietre con determinazione dell’origine siano sempre più apprezzate. Per il gemmologo questa è una nuova avventura, una nuova frontiera. Ma forse il suo bagaglio tecnico tradizionale è insufficiente…
“Certamente al giorno d’oggi la tecnologia ci mette a disposizione apparecchiature che consentono di aggiungere nuovi e sempre più concreti elementi per l’identificazione dell’origine, tuttavia il loro utilizzo e l’interpretazione dei dati che ne derivano necessitano spesso di personale altamente qualificato in molti casi dotato di un background scientifico specialistico. In più stiamo parlando di apparecchiature anche molto costose, non ci sono molti laboratori al mondo che possano dotarsene.”
Par di capire che l’utilizzo di queste tecnologie avanzate possa dunque risolvere il problema sull’identificazione certa di provenienza, è così?
“Nonostante tutto non è purtroppo sempre possibile giungere ad una identificazione dell’origine e in taluni casi non può essere rilasciata un’analisi completa di questo parametro, per tutti gli altri la formula è: probabile origine”.
“Nonostante tutto non è purtroppo sempre possibile giungere ad una identificazione dell’origine e in taluni casi non può essere rilasciata un’analisi completa di questo parametro, per tutti gli altri la formula è: probabile origine”.
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